Il mio primo giorno di lezione all’università, uno dei più stimati professori del mio ateneo accolse noi matricole dicendoci: “Sapete bene che le prospettive di lavoro con una laurea in filosofia sono molto poche. Quindi di certo non siete qui per i soldi, ma solo per passione”. Quindi proseguì citando il passo di Dante che ancora oggi è il mio preferito:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
Il folle volo di Ulisse. È questa la prima cosa che mi è venuta in mente, leggendo le parole che Norman Zarcone, 27 anni, dottorando in filosofia del linguaggio all’Università di Palermo, ha lasciato scritte su un quaderno prima di gettarsi dal settimo piano della sua facoltà.
La libertà di pensare è anche la libertà di morire.
Mi attende una nuova scoperta anche se non potrò commentarla.
Norman si era laureato in filosofia con 110 e lode. Stava per finire il terzo anno di dottorato, e siccome non aveva la borsa di studio si arrangiava a tirar su qualche soldo lavorando come bagnino. Era fidanzato, voleva sistemarsi, ma come molti altri prima di lui (me inclusa) si era già sentito dire che per “il dopo” non c’erano prospettive.
Giordano Bruno è stato messo al rogo per aver detto la verità, Nietzsche è morto povero e pazzo, valorizzato solo perché clamorosamente frainteso, Fichte è stato trattato da idiota e ripudiato dal suo stesso maestro Kant, Schopenhauer ha sofferto tutta la vita per essere stato offuscato dal più popolare (e prolisso) collega Hegel: noi aspiranti filosofi siamo abituati a convivere con l’idea di non avere una luminosa carriera. Quindi se dopo quattro anni di università uno si presenta al concorso di dottorato, è perché ci crede davvero, perché è proprio convinto che sia una figata pazzesca.
Ma il dottorato di ricerca è una specie di naja intellettuale, con il suo corredo di gerarchie, nonnismo, punizioni. La prima doccia fredda arriva presto, al primo confronto con il collegio docenti: il dottorando si accorge presto di essere il campo di battaglia su cui si combattono le rivalità sotterranee che animano i complotti di facoltà. Ma si ripete che è tutta gavetta, che è un modo per forgiarlo al duro e competitivo ambiente accademico; che la sua è una grandiosa ricerca e i risultati lo dimostreranno, anche se i docenti continuano a dirgli con parole sempre più affilate che la sua ricerca non vale niente solo per fargli capire chi è che comanda, chi è che sa. Si arriva al secondo anno con una planimetria mentale di alleanze, amici e nemici che dimostra, 99 volte su 100, che il dottorando è abbandonato a se stesso; ma c’è ancora una recrudescenza di vita, in questi giovani cervelli, c’è ancora desiderio di combattere per sopravvivere. Recrudescenza che viene invariabilmente uccisa al terzo anno, quando, sempre 99 volte su 100, il dottorando lotta solo contro il tempo per finire di scrivere la tesi mentre contemporaneamente pensa che, in fondo, è tutta fatica sprecata, non c’è nessuna speranza per il futuro, e allora tanto vale arrivare presto all’ultima pagina della stramaledetta tesi perché lo stillicidio finisca in fretta.
Certo, ci sono le sorprese: c’è il professore che crede in te e si batte per farti avere un assegno; c’è l’inaspettata risposta positiva per un posto in un’università estera; ci sono le prospettive alternative che si aprono all’improvviso, magari con la proposta per un lavoro lontano dalle cattedre ma ugualmente (forse più) appagante e interessante. Ci sono le sorprese; ma possono non esserci. Puoi essere convinto di saper fare solo una cosa nella vita, e aspettare per mesi un bagliore di speranza che non arriverà mai. Puoi pensare di avere ancora tanto da dire, se solo qualcuno ti desse la possibilità di farlo… ma nessuno lo fa.
Puoi ritrovarti seduto sul cornicione di una finestra della tua facoltà a fumare una sigaretta, magari con l’ultimo capitolo della tesi nella borsa, a chiederti che cosa ne sarà mai della tua vita tra qualche mese. E non trovare nessuna risposta.
Ah, l’amore per la conoscenza, questa cosa che ci fotte sin dal primo giorno! Siamo stati tutti seduti su quel cornicione, e ne siamo scesi solo rinunciando a un pezzo di noi stessi. Norman non lo ha fatto, e la sua morte adesso pesa come un macigno su quell’equilibrismo di lobby e baronie che è il nostro sistema universitario. E mi piacerebbe andare a chiedere al mio ex stimato professore cosa ne pensa; se è ancora il caso di parlare alle matricole di quella passione che anche lui ha contribuito a spegnere.
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo.
Mi viene banalissimamente da dire che siamo in guerra, una guerra di resistenza. Siamo sulle colline del precariato in attesa che gli Alleati da qualche parte lassù ci mandino munizioni. La vita precaria è anche non avere il coraggio di Norman. La precarietà della mediocrità.
è vero, siamo in guerra. lo siamo anche con noi stessi… perché ci hanno ad essere integerrimi, a seguire le nostre aspirazioni, ma poi questa integrità ce la scippano a morsi…
ah, se solo ci arrendessimo all’evidenza che gli Alleati non arriveranno mai!
Sono sconvolto. Un estremo gesto di pensiero. Ma non credo sia l’unico. Ecco quello che ti toglie l’accademia: il gesto di pensare. Ti toglie la possibilità di compiere un gesto, ti “gestisce”. Mi ritrovo nel tuo ritratto del dottorato. Siamo davvero in guerra.
ariemma, anche tu nella gioiosa isola del dottorato in filosofia?
io ieri sfogliavo il programma del Festival a Mantova. già che il tema sia “la fortuna” sembra quasi una provocazione, ma vedere i titoli degli interventi, tutte variazioni sulla vita precaria, abbinati ai nomi di professoroni che tutto sono fuorché precari è a dir poco offensivo…
Già dato, adesso sono nel fantastico mondo del precariato crudele. A proposito di Festival, io domani dirigo il primo Festival del Pensiero Emergente. Basta che fai un salto sul mio blog, per conoscere i dettagli
Io comincerò giusto giusto a novembre, alla Bicocca 🙂
Ma grazie al fatidico piano B (leggi: scrivere romanzi), progetto di trasformare la passione in hobby e viceversa.
L’importante è prima crederci e poi provarci.
Giorgio, siccome conosco abbastanza da vicino anche il mondo dell’editoria… trovati anche un piano C, che non si sa mai 😀
a parte gli scherzi, non tutto il mondo è paese e io ti auguro davvero di cuore non solo di continuare a crederci e a provarci, ma soprattutto di riuscirci!
E che la tua esperienza di dottorato sia una bella eccezione alle cose che si sono dette qui 🙂
Nessun problema! Piano C quasi pronto e da iniziare a breve 🙂
Sono anche curioso di sapere come funzionino gli incentivi per li studio all’estero (+50% di stipendio)…
Ma a parte questo: non penso/credo che il “folle volo” sia un puro prodotto dell’impossibilità di continuare una carriera finito il dottorato.
Può essere un incentivo, un promemoria che tutti i giorni ti ricorda “continua, continua ma dopo non c’è nulla”, ma di fatto nessun’altra situazione che aveva al momento era abbastanza per colmare quel “nulla”. Né l’amore, né la famiglia.
Si direbbe che il nulla (e qui mi sovviene la saggezza di Michael Ende) già lo possedesse, già lo aveva divorato, tutto il resto era già “nulla”.
Comunque grazie per gli auguri e ricambio… nel frattempo, farai capolinoi nel mio blogroll – facciamoci forza 😀
Pingback: Quello che c’è da dire…
Di quel folle volo mi colpisce la lucidità perchè quel folle volo almeno mentalmente lo ha tracciato chiunque sia passato o passi attraverso il “macinino” psudo culturale delle aziende ‘università’ (io in primis e non lo scrivo per estetica assonanza da ‘affinità elettiva’…).
Mi perdonerai se tralascio l’aspetto del tipo di facoltà perchè analogamente, anche se con forme diverse, non cambia molto per altri corsi universitari più blasonati dal punto di vista sociale ma altrettanto chiusi da lobby forti, non facilmente valicabili. La mancanza di prospettiva a mio modo di vedere è solo la goccia che fa traboccare un vaso fin troppo riempito di senso di inadeguatezza, quello che ti infondono goccia a goccia dal primo giorno che entri in aula.
Il “miglior” risultato che riescono a produrre certi ambienti accademici è proprio quello infatti soprattutto in chi (come me ad esempio) alle spalle non aveva certezze economiche e (va da se in quel momento) nemmeno culturali. Solo una bella famiglia con sani principi e qualche affetto speciale.
Quella è stata poi a ben vedere la mia scaletta per scendere dal cornicione.
Con questo non voglio assolutamente sottointendere che quel volo ha come prologo una situazione affettiva carente, tutt’altro, la mia premessa è solo per dire chee prendendo a punto di partenza la mia esperienza mi ha ancor più impressionato la lucidità nella disperazione di chi non ha avuto la fortuna o la contingenza di trovare un appiglio per ‘continuare’. Malgrado non sia proprio un ragazzino ancora non sono mai riuscito a farmi una idea etica precisa del suicidio. Di questo Werther contemporaneo però posso solo dire che ha tutta la mia com-passione nel senso primitivo del termine e non certo per il pathos della storia quanto per aver in qualche modo anche io ‘sentito’ che aria tira su quel cornicione e che in qualche modo ancora mi vogliono far sentire rendendomi precario dentro ancor prima che materialmente.
Ti chiedo scusa se mi sono dilungato.
Complimenti per la splendida riflessione e scusa la banalità dell’aggettivo.
PS
Solo per la cronaca non ti conoscevo e vengo qui dal blog Ammodomio.
Grazie ancora 🙂
mario, hai colto in pieno il senso del mio intervento e quindi grazie a te!
non posso che essere d’accordo con tutto quello che scrivi: il senso d’inadeguatezza, la precarietà intellettuale ancor prima che materiale, le lobby schiaccianti… sto ricevendo in questi giorni un sacco di attestazioni di solidarietà e com-passione (proprio nel senso in cui lo usi tu), segno che a quanto pare sono cose che fin troppo legate agli ambienti accademici.
e se il cornicione è così affollato come sembra, questo è davvero preoccupante.
per fortuna c’è ancora chi ci sostiene e ci sprona, magari anche con una bella torta al cioccolato 😀
Sono “cresciuto” con gli sbriciolati e le crostate di mia mamma :PPP al prossimo giro però provo una torta al cioccolato che ho adocchiato veramente bella! ehehehehe ;P
Grazie a te…per il tuo modo lucido e sferzante di scrivere.
Una bella lezione di stile e contenuto.
ciao, belissimo blog. Insieme ad altri colleghi di dottorato e un ricercatore abbiamo aperto un blog di filosofia http://filosofiprecari.webatu.com/. Salutissimi da quel di Roma, io sono un barese ex dottorando che ti conosce 🙂
Ciao!! Ti riconosco dal link e dall’indirizzo mail 😉
Come sei finito a Roma? Com’è la vita dei dottorandi e degli ex-dottorandi laggiù?
Aspetto aggiornamenti, e intanto Filosofi precari va dritto nel mio blogroll, più compagni di sventura di voi non c’è nessuno! 😀
A Roma sfrutto (sfrutterò) i finanzimaneti della regione puglia per un Master… Faccio lavoretti e resisto! Quando vuoi puoi diventare autrice nel nostro blog (basta iscriversi, è un blog collettivo dove spesso ci ammazziamo), il tuo non lo conoscevo, ci passerò spesso. Ti ho aggiunta nel blogroll. Ciao!
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Qui si prende per buono che questo si sia suicidato per via del dottorato. Ma è così davvero? Chiedo.
Le parole che riporto nel post sono le ultime lasciate da Norman su un quaderno. Il padre e i suoi amici hanno sempre detto che negli ultimi tempi prima di concludere il dottorato Norman era fortemente depresso e preoccupato per il futuro. Io non faccio fatica a crederci, perché è successo a me e a quasi tutti quelli che conosco; poi ci sono modi diversi di rispondere alla pressione, di certo c’entra molto il carattere e l’ambiente in cui uno vive. C’è chi stringe i denti, chi emigra, chi cede.
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